La concezione antica
il mago

Ippocrate (di Cos 460-370 a.C.) già scriveva: "L'uomo deve sapere che null'altro che dal cervello, provengono gioie, piaceri risate e divertimenti e dolori tristezze, sconforto e lamenti".
Della scuola di Cos era anche il medico Erofilo (circa 330 a.C.), che poi visse e studiò la fisiologia e l'anatomia del cervello ad Alessandria di Egitto; anch'egli considerò il cervello la sede del pensiero in quanto comprese come la formazione dell'intelligenza di un individuo appartenesse sicuramente al suo sviluppo cerebrale.

E' opportuno precisare, che Ippocrate e i suoi seguaci considerarono il cervello come uno strumento naturale, capace di scoprire l'intelligenza della natura.
Come una pianta riceve dalla radiazione luminosa l'informazione per crescere sana e robusta, il cervello, ben esercitato e sano, era considerato capace di scoprire l'anima che pervadeva un universo considerato intelligente: così era in grado di capire la propria natura onde evitare danni alla salute del corpo e della mente.

Purtroppo gli insegnamenti della Scuola di Cos furono in seguito dimenticati; infatti Aristotele (384-321 a.C.), le cui idee sono state sostanzialmente accettate per quasi duemila anni, considerando l'importanza del sangue per la vita, teorizzò che gli organi particolarmente ricchi di sangue, come il cuore ed il fegato, fossero sistemi dove pulsava lo spirito vitale e con tale presenza venivano a manifestarsi tutte le qualità specifiche degli esseri viventi; si ritenne, ad esempio, che le emozioni fossero una proprietà del cuore e l'intelligenza una capacità propria del fegato.

Anche la tradizione più antica di quella aristotelica, che risale agli alchimisti egiziani, attribuiva al cuore la corrispondenza con il dio sole e quindi con il metallo più prezioso, l'oro; Marte, il pianeta rosso, veniva associato al fegato e quindi al ferro, a simbolo dell'intelligenza combattiva necessaria per il superamento degli ostacoli e delle difficoltà della vita.

Si ritenne allora che il cervello avesse la funzione di refrigerare il sangue caldo, in quanto composto principalmente di acqua; soltanto alla ghiandola pineale, che risiede al centro del cervello e che si riteneva presiedere la visione, venne associato il pianeta Giove a cui corrispondeva un metallo meno prezioso, lo stagno.

Anche riguardo alla percezione, proprio per non aver preso in seria considerazione l'attività del cervello, non si formularono, nella scienza antica, idee dotate di una certa chiarezza. Gli atomisti Leucippo e Democrito (V secolo a.C.) ed i loro seguaci ritennero causa della visione delle cose, la volatilità nello spazio di forme prive di sostanza materiale (dette eidola) che venivano emanate dagli oggetti stessi: quindi gli occhi percepivano il mondo per contatto con questi spettri emanati dagli oggetti.

Ancora oggi rimangono tracce nel linguaggio comune di questo modo di pensare quando si dice: "La cosa ad un tratto mi è saltata agli occhi".

Pitagora (570-497 a.C.) ed i pitagorici preferirono invece ritenere che l'anima insita negli esseri viventi emanasse suoi raggi dagli occhi, riconducendo la loro interpretazione al fatto che, specie al buio, gli occhi degli animali sembrano emettere una vivace luminosità.
Di questo modo di pensare rimangono nel linguaggio comune varie frasi, quali: "Il cielo è così limpido che sembra di toccare le cose con con gli occhi" - oppure: "Quella donna ha gli occhi che ammaliano" - ed anche: "Gli occhi sono lo specchio dell'anima"