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Le
ginestre
Sorgeva un monte alto e maestoso,
coronato di fuoco, in una terra divinamente bella, ricca di vigneti, olezzante
di fiori. Le onde azzurre lambivano quella terra e le sussurravano parole
armoniose; in tanta gioia e magnificenza della natura, le ninfe del mare
sorridevano a quelle dei boschi e delle montagne, che intrecciavano danze.
A loro si univano le piccole fate dei giardini, che cantavano con voci
soavi; dall’ alto del monte rispondevano le divinità montane e un
coro meraviglioso riempiva di sé la campagna. A volte avveniva che
il vulcano si destasse, emettendo cupi boati: allora si vedevano lingue
di fuoco guizzare nell’ombra della notte. Ma in quei tempi favolosi nessuno
aveva paura delle eruzioni. Non vi erano paesi, non vi erano case. Soltanto
gli esseri fantastici aleggiavano tra le pinete ed il mare, ed essi non
temevano di nulla. In uno di quei giardini, che dai colli degradano dolcemente
alla spiaggia, sbocciava, fiore di leggiadria, la piccola fata Liù.
Gli occhi limpidi della fanciulla avevano il riflesso verdazzurro delle
onde, le sue gote delicate il profumo dei fiori, la sua persona la snellezza
e la flessuosità di un pino giovanetto. Creatura eterea, viveva
di profumo e di ambrosia, amava cingersi tutta di fiori, e parlava in dolci
versi alla corolle da lei tanto amate. Spesso con le sue compagne, cui
era legata da tenerezza e confidenza profonda, si recava verso il monte,
e insieme salivano lungo i sentieri, per niente atterrite dal pensiero
che potessero allo improvviso scatenarsi lapilli infuocati. Soltanto dava
loro melanconia la vista di quel terreno arsiccio, dove nessun fiore poteva
sbocciare. –Sorelle, invitare i nostri amici della montagna a una festa
di primavera?- propose una sera Liù, che era piena di idee gentili,
alle amiche. –Li rallegreremo col profumo e coi colori vivaci dei nostri
fiori. A tale proposta gioirono Fragoletta, Lucciola, Iris e le altre graziose
fatine ;e tutte si misero al lavoro per preparare un ballo gioioso.- Io
eseguirò le note più soavi – disse Rititì, l’ usignolo
fatato. E Chiaro di luna, la sorella maggiore di Liù, donò
a tutte delle vesti d’ argento filato. In una sera di aprile, quando appena
il primo glicine profumava l’aria, tutti i geni e le fate e le ninfe si
raccolsero su tappeti di muschio e intrecciarono le loro danze, e bevvero
rugiada nei calici verdi, e gustarono pietanze profumate e leggere. Si
ballò nel plenilunio di primavera, e Liù era più bella
che mai ,nella sua veste così chiara, coi morbidi capelli adorni
di roselline, e aleggiava tra i cespugli come una farfalla. Ora avvenne
che un giovane dio della montagna , danzando con la piccola fata, fu preso
da vivo amore per lei. Se Liù era soave come un giglio, dolce come
un sogno di primavera, il giovane dio era bello e bruno, potente e nobile,
e portava nei neri occhi e nell’anima ardente fuoco del suo vulcano natio.
Plaudirono tutti nella notte di aprile, al suo amore per Liù ed
intonarono canti augurali per le prossime nozze. Solo ne piansero sommessamente
le fate dei giardini, dolenti che la loro sorellina le lasciasse per andare
sul monte, alla dimora dello sposo.
Trascorsero lievi e rapidi i giorni;
e alla primavera odorosa seguì la torrida estate . Le divinità
romane attendevano in festa la gentile creatura, che avrebbe portato nuova
grazia, nuova poesia nella loro vita solitaria.
E Liù salì, sorridendo,
verso le pendici bruciate in una sera di luglio, mentre tutti esultavano
e il vulcano per festeggiarla si coronava di fuoco. Il dio della montagna
le offrì i più bei doni, le ninfe le si inchinavano premurose,
e anche le stelle dal cielo sembravano brillare di gioia.
Ma purtroppo tristi giorni si preparavano
loro…
La piccola fata, nata nel calice
di una ninfèa, educata e nutrita dai fiori, si avvide ben presto
che non poteva sopportarne l’assenza, e ne chiese allo sposo.
Qui non crescono fiori
né frutta, bianca, piccola Liù. Qualunque cosa vorrai ti
sarà concessa, ma non chiedere questa.
E Liù, sfiorite le ghirlande
che le cingevano il capo, intrecciate per lei dalle premurose compagne,
non respirò più profumi, non ebbe più corolle in cui
riposare il suo sguardo. Invano furono piantati nel terreno pietroso i
semi più rari. Nessun fiore nasceva. Invano i piccoli folletti corsero
giù a raccogliere fasci di margherite e di rose; quando ritornavano
alla dimora del loro Signore le fresche corolle erano tutte avvizzite.
Così la giovane Liù. Anch’ essa, giovane corolla, deperiva.
E fu necessario rimandarla al giardino natio, tra le fate e i fiori. Ma
il nobile Dio, dal cuore ardente come il suo vulcano, emise grida di dolore
che ripercorsero selvagge nel silenzio dei monti. Impietosite le ninfe
si genuflessero, chiedendo al cielo un miracolo, e pregarono anche la terra
perché , benigna, volesse donare almeno una corolla.Il giovane dio
era giovane e generoso e il suo dolore commosse tutti. Ein una notte di
settembre avvenne il prodigio…
L’arido terreno sentì che
dal suo grembo un fiore poteva sbocciare;e il sole mandò tutto il
suo oro per colorare quel fiore solitario.
All’alba la montagna infeconda,
sterminatrice , era cosparsa di splendide corolle, spuntate tra i lapilli
e le ceneri. Al prodigio fremettero di gioia le ninfe e i folletti, e il
dio della montagna, raggiante, corse dalla fata dei giardini recandole
la ricca messe dorata. – Sono i fiori della mia terra sbocciati in una
notte di settembre, per amore della piccola Liù. Le saranno graditi
?…Le appariranno leggiadri?
Le odorose ginestre fiorirono ancora
a primavera, e da allora ritornarono tutti gli anni sull’arido monte. E,
dopo tanti secoli ispirarono versi divini a un Poeta, versi che anche voi,
fanciulli, leggerete e amerete:
"Qui sull’ arida schiena
del formidabil monte,
sterminator Vesevo,
la qual null’ altro allegra arbor
né fiore
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra
contenta dei deserti".
E fioriscono ancora, nella primavera
e nell’autunno, lungo le pendici del vulcano che dall’alto si specchia
nell’ azzurro Tirreno e domina maestoso il più bel golfo del mondo. |