Vallombrosa

 

Sintesi descrittiva

Vallombrosa è uno degli esempi più significativi di località in grado di soddisfare i più svariati interessi culturali: da quelli naturalistici a quelli storici, artisti e ricreativi. Nel corso dei secoli gli ambinti più propriamente naturali sono stati plasmati dalli attività dei monaci vallombrosani che in questi luoghi avevano trovato un intenso raccoglimento spirituale e, con la coltivazione della terra e la cura dei boschi, il sostentamento per la comunità da essi eratta.

La Congregazione dei Vallombrosani fu fondata da S. Giovanni Gualberto, che qui si stabilì agli inizi dell' XI secolo seguito da altri numerosi discepoli.La comunità monastica accrebbe con gli anni di importanza e migliorò via via le proprie condizioni, estendendo i suoi possessi in seguito alle donazioni elargite da numerosi benefattori.

Il cuore della foresta di Vallombrosa è rappresentato dall'abbazia, circondata da un vasto complesso di abetine, in passato individuate con il nome dell'abate che ne aveva curato l'impianto. L'insediamento monastico e la abetine rappresentano due elementi inscindibili tra loro, non foss' altro che per la loro storia secolare. Furono proprio i monaci che estesero la coltivazione dell'abete bianco secondo un razionale metodo di coltura artificiale, le cui prime norme furono dettate dall'abate Michele Flammini nel 1350.

Nei dintorni dell'abbazia si ritrovano numerose cappelle, tabernacoli, croci e fonti, che rievocano episodi e personaggi di alcune tappe significative della storia monastica vallombrosana. A questo proposito, particolarmente ricca di testimonianze è la "Scalinata del Calvario" che dall'abbazia conduce al Paradisino. Un altro luogo molto caro alla tradizione dei monaci è il Faggio Santo, albero considerato prodigioso perchè, come tramandato dall'agiografo, accolse e protesse S. Giovanni Gualberto appena giunto a Vallombrosa.

Grande motivo di interesse rappresentano gli arboreti, di cui il nucleo principale si trova compreso tra la strada per il Saltino e quella per monte Secchieta, mentre una sezione staccata è situata in località Masso del Diavolo, lungo la strada per la Consuma. Gli alboreti, importanti collezioni di alberi che comprendono sia specie esotiche che indigene, rivestono un notevole interesse da molteplici punti di vista. Nei pressi della sede distaccata dell'Istituto sperimentale per la selvicoltura di Arezzo, che cura la gestione degli alboreti, si trovano i vivai sperimentali che risultano di notevole importanza per la produzione di materiale destinato principalmente ad arricchire gli arboreti di Vallombrosa nonchè a finalità di ricerca. Nei locali dell' Istituto è in via di allestimento un museo dendrologico in cui è possibile osservare campioni di foglie, fiori, frutti,semi e legno dellle principali specie collezionate negli arboreti. All'Istituto sperimentale sono altresi affidate le parcelle sperimentali di specie esotiche, impiantate all'inizio di questo secolo in diverse località della foresta, che consentono di compiere interessanti studi comparativi. Poco oltre l' abbazia, in posizione panoramica, si trova il Paradisino, anticamente luogo di eremitaggio (Eremo delle Celle), dove fin dall' XI secolo si ritiravano monaci particolarmente desiderosi di solitudine e intimità con Dio.

Nel secolo scorso fu adibito ad albergo, perdendo la fisionomia originaria e, attualmente, è sede del centro didattico del Corso di laurea di scienze forestali dell' Università di Firenze. La foresta comprende un esteso nucleo di abetine che da 680 metri si spinge fino a 1250 metri; alle quote più elevate si ritrova una ristretta fascia di faggette a funzione protettiva. Oltre a queste formazioni vi sono le pinete di pino laricio ubicate prevalentemente alle quote inferiori, verso Pian di Melosa, dove formano un nucleo accorpato. I castagneti sono maggiormente rappresentati nelle località Vivaio Sanbuco e Pian dei Meli: si tratta per lo più di antichi castagneti da frutto convertiti in cedui. I cedui misti di latifoglie (cerro, orniello, carpino nero, acero opalo ecc.) occupano pendici molto ripide o si ritrovano in corrispondenza di zone soleggiate. Infine, sparsi qua e là in tutta la foresta, si ritrovano soprassuoli di conifere esotiche douglasia, abete di Nordman, Pinus murrayana ecc.) sia in formazione pure che miste ad altre conifere e latifoglie.

Con il decreto istitutivo 13.7.1977, la foresta di Vallombrosa, per un' estensione di 1270 ettari, è stata classificata Riserva naturale biogenetica con lo scopo di conservare il patrimonio genetico delle cenosi forestali. Prima del patrimonio forestale demaniato dallo stato alle regioni, anche il nucleo disgiunto della foresta di S.Antonio (993 ettari), era gestito dall' azienda di stato per le foreste demaniali. Tale territorio, la cui gestione è attualmente affidata alla comunità montana del Pratomagno, si estende a sud di Vallombrosa, sul versante occidentale della catena del Pratomagno. Entro i confini della riserva biogenetica, salvo qualche rara eccezione, non ci sono insediamenti di proprietà privata: i numerosi edefici che fanno parte della foresta sono di proprietà demaniali. In particolare l' abitato del Saltino (998m), che fino agli anni '20 era collegato con l'asse ferroviario Roma-Firenze per mezzo di una ferrovia a cremagliera, che prima della costruzione di strade era l'unico accesso all foretsta.

Attualmente la foresta è attraversata da numerose strade, che servono sia per il movimento turistico sia per le attività forestali (trasporto legname,vigilanza ecc.).

 

 

 

Inquadramento ambientale

La foresta di Vallombrosa è ubicata sulle pendici del Prato magno, massiccio che costituisce un contrafforte della catena dell' Appennino tosco - emiliano. Fa parte del comune di Reggello, in provincia di Firenze. Il complesso boscato si estende sul versante occidentale del monte Secchieta (1449 m) che, insieme a Poggio Sambuchello (1212m), Poggio Artello (1261m) e Poggio alle Ghirlande (1323m), rappresenta una delle cime più elevate del Pratomagno. I boschi ricoprono tutto il versante tra le quote di 530 metri e 1350 metri; la parte sommitale del monte Secchieta, battuta da forti venti, è colonizzata da praterie.Mappa del territorio

Dal punto di vista geologico predomina la formazione dell' Oligocene: si tratta di rocce sedimentarie, quali grossi blocchi di arenaria di diversa struttura, che si alternano a strati di scisti argillosi. Da queste rocce derivano terreni diversi, ma in generale poveri di calcare e piuttosto acidi. Altri tipi di suoli (suoli bruni acidi o podsolici) sono quelli che si originano da arenarie grossolane, facilmente alterabili; questi suoli, a prevalenza tessitura sabbiosa, si ritrovano vicino a Pian di Melosa.

Il territorio in cui è compresa la foresta, rientra sulla sinistra orografica del bacino del Vicano di S.Ellero, affluente dell'Arno. Si può dire che a Vallombrosa non esistono veri e propri corsi d'acqua, ma un numero elevato di fossi a fore pendenza, che finiscono quasi tutti nel Vicano di vallombrosa. I fossi (fosso dell'Abate, fosso dei Bruciati ecc.) hanno in genere un breve sviluppo longitudinale e la loro portata idrica è caratterizzata dalle oscillazioni stagionali. In tutte le zone della foresta abbondano fonti e sorgenti perenni. L'idrografia della foresta comprendeva, fino alla fine del secolo scorso, anche un laghetto artificiale creato dai monaci con uno sbarramento in muratura sul Vicano. Il lago scomparve, essendo stata trascurata la manutenzione dello sbarramento; la piccola diga fu ricostruita ma venne distrutta dal torrente in piena. Di questo lago è rimasto un ricordo nella topomastica dela foresta (località il Lago). Un altro piccolo invaso artificiale costruito nel 1949 e tuttora in esercizio è il lago del Bifolco, situato in località Stefanieri, è utilizzato per rifornire d' acqua Le Piagge.

Il clima di Vallombrosa è caratterizzato da un regime pluviometrico mediterraneo con piogge concentrate sopratutto in autunno. I dati referiti ad un trentennio di osservazione hanno fatto registrare una piovosità media annua di 1390mm.

Durante l' inverno sno frequenti le precipitazioni nevose, ciò nonostante, per l'azione mitigante dei venti occidentali, la neve non permane al suolo per tutto il periodo invernale. Si tratta di un clima piuttosto umido, ma non eccessivamente rigido; la temperatura media annua è di 10°C, quella del mese più caldo (luglio o agosto)è di 19°C e quella del mese più freddo (gennaio) è di 1,5°C. Alcune zone della foresta, sopratutto nelle esposizioni sud e ovest, denotano microclimi più caldi e aridi, evidenziati dalla presenza di specie termofile (la roverella, l'orniello e il leccio).

 

Storia dei boschi vallombrosani

L'arboreto, come del resto anche la foresta, subì gravi danni nel periodo bellico: un bombardamento nell'agosto 1944 comportò la perdita irrimediabile di oltre 200 esemplari e ad altri 400-500 furono inferte ferite e mutilazioni tuttora osservabili. L'inverno successivo atti di saccheggio compiuti dalle truppe di occupazione e da civili, comportavano l'utilizzo della recinzione e dei picchetti recanti i numeri di inventario e le etichette. Soltanto nel 1948 la nuova recinzione fu ripristinata e contemporaneamente si rinnovò la canalizzazione delle acque, compromessa durante la guerra. Il prezioso materiale raccolto nel museo dendrologico andò disperso, come pure gravi furono i danni inferti dai bombardamenti alla palazzina della Stazione sperimentale.

Il dopoguerra rappresenta per gli arboreti un periodo di progressivo degrado: l'arboreto di Masso del Diavolo viene completamente abbandonato, mentre si assiste al depauperamento della collezione dendrologica nel suo complesso. Negli anni più recenti la situazione è andata migliorando; sono stati compiuti ulteriori ampliamenti, grazie alla concessione di nuove particelle da parte della direzione dell'ex azienda di stato delle foreste demaniali.

Nuove introduzioni e reintroduzioni sono attualmente curati dall'Istituto sperimentale per la selvicoltura di Arezzo e dall'Istituto di botanica agraria e forestale dell'Università di Firenze. Il nucleo principale degli arboreti è compreso fra le quote 950 e 980 m, con esposizione a nord-ovest. Nel 1976 l'Istituto sperimentale per la selvicoltura ha iniziato l'opera di restauro ecologico dell'arboreto del Masso del Diavolo.

Le peculiari condizioni climatiche del Masso del Diavolo rendono possibile la presenza di piante tipicamente mediterranee anche a quote comprese tra 850 e 950 m. Si tratta quindi di un ambiente esclusivo per la didattica e la ricerca nel campo della biologia degli alberi.

Un primo elenco sommario delle piante presenti negli arboreti di Vallombrosa fu compilato dal Perona nel 1905 e comprendeva 3400 esemplari(specie e varietà`), riconducibili a 92 generi. Ma il primo catalogo completo della collezione fu redatto nel 1917 da Ludovico Piccioli, che elencava 267 entità tassonomiche, distinte in 96 generi e 46 famiglie.

Una recente revisione dell'inventario è stata oggetto di illustrazione da parte di Ernesto Allegri(1970).Da questo lavoro si deduce che negli arboreti di Vallombrosa vegetano oltre 3000 esemplari, con più di 1200 specie suddivisi in 137 generi, tra conifere e latifoglie. In definitiva gli arboreti di Vallombrosa, per la loro ricchezza, per la dimensione e importanza di alcuni esemplari sono gli unici in Italia degni di questo nome e rappresentano una delle collezioni più interessanti d'Europa.

 

 

I boschi

In assenza di attività antropiche, la vegetazione può considerarsi una fedele espressione delle caratteristiche climatiche di una certa zona. A Vallombrosa l'originaria fisionomia della vegetazione è stata profondamente modificata dall'azione secolare dell'uomo. A questo motivo e `da attribuirsi la notevole espansione delle formazioni di abete bianco che, come si è già visto, è stato diffuso con un razionale metodo di coltura dai monaci vallombrosani. Da documenti risalenti all'XI secolo, sembra che questa specie, attualmente estesa su gran parte della superficie, vegetasse già a quel tempo in piccoli nuclei naturali, che si erano progressivamente contratti per la concorrenza delle latifoglie e per l'azione antropica. I monaci operarono una massiccia opera di sostituzione di alcune specie(soprattutto faggio)con Pinus Halepensisl'abete bianco. Accanto al nucleo delle abetine sono state introdotte fin dal secolo scorso, altre resinose. Fra queste si ricordano il pino laricio e il pino nero austriaco, che per il loro carattere frugale, sono state impiantate sui terreni più` poveri al posto delle latifoglie preesistenti. Altre conifere introdotte in foresta sono l'abete rosso, che si pensava in un primo momento di poter sostituire all'abete bianco, e il pino silvestre che spesso si ritrova consociato al pino laricio e a varie latifoglie. Nella stessa fascia si ritrovano anche i castagneti, la cui estensione è andata progressivamente riducendosi a favore di abete bianco, pino laricio e douglasia. Si tratta per lo più di boschi cedui a turno lungo(circa 30 anni),derivati dalla conversione dei castagneti da frutto ("selve castanili"), le cui condizioni vegetative erano state deteriorate dagli attacchi di cancro corticale e dal mal dell'inchiostro. Nella stessa zona di vegetazione del castagno, particolarmente nelle esposizioni piu`soleggiate, si ritrovano cedui misti di latifoglie caratterizzati da una notevole mescolanza di specie. Anche la supereficie occupata dalle faggete è andata progressivamente contraendosi in seguito alla diffusione artificiale dell'abete bianco. La faggeta delle zone più prossime al crinale ha una funzione prevalentemente protettiva date le sue caratteristiche di maggiore stabilità, rispetto ad altre specie, soprattutto nei confronti dei venti, che spirano conparticolare frequenza e intensità.

 

 

Le abetine

Fra le diverse formazioni forestali che costituiscono la Riserva biogenetica, le abetine ricoprono la maggiore superficie, in conseguenza della progressiva espansione operata dai monaci a partire dal XIV secolo. La diffusione dell'abete bianco trovava la sua giustificazione sia per motivi di carattere estetico sia per ragioni economiche, data la crescente richiesta del legname di abete sul mercato.Abies Pectinata

Merita ricordare che era necessario disporre di tronchi lunghi per le antenne delle navi e le travi delle chiese e delle case.Nel caso diVallombrosa, l'abete bianco connota fortemente il paesaggio dove contribuisce a quel contrasto di colori che la foresta assume con l'avvicendarsi delle stagioni. Le abetine sono inoltre custodi di ricordi storici e religiosi quali fonti, cappelle, oratori, molto cari alla tradizione monastica.

L'abete bianco è una specie tipicamente europea. In Italia vegeta sulle Alpi tra 800 e 1600 m e sull'Appennino tra 800 e 1700 m,lo si trova spesso consociato all'abete rosso e al faggio.Presenta un fusto dritto e cilindrico, con corteccia liscia e argentata da giovane, che diviene piu`spessa e si screpola nelle piante adulte.La chioma sempreverde, inizialmente piramidale,tende a formare il cosiddetto "nido di cicogna" quando la pianta raggiunge la maturità.

 

Le faggete

Il faggio è una latifoglia diffusa in quasi tutti i paesi europei:manca nei territori che risentono dell'influenza del clima mediterraneo e nelle regioni a clima piu`continentale. L'ottimo per questa specie è un clima con elevata umidità atmosferica e temperature livellate, senza eccessive escursioni termiche. In Toscana il faggio è la tipica pianta

dei boschi di montagna, generalmente sopra i 1000m di altitudine. Un tempo la faggeta occupava a Vallombrosa una superficie di gran lunga maggiore rispetto a quella attuale ed era presente anche a quote inferiori. Con il progredire della diffusione dell'abete, la superficie si è ridotta a meno di 200 ettari. I monaci vallombrosani si riservano tuttavia una parte della faggeta, che governano a ceduo,per l'approvigionamento della legna da ardere e per il pascolo.

Talvolta la legna da faggio veniva trasformata in carbone vegetale. L'arboreto, come del resto la foresta, subì gravi danni nel periodo bellico: un bombardamento dell'agosto 1944 comportò la perdita irrimediabile di oltre 200 esemplari ed altri 400-500 subirono ferite e mutilazioni tuttora visibili.

Fraxinus OrnusLegnoso, ad eccezione di alcune località dove fu iniziata una conversione a fustaia. Nel 1885 risultavano già convertiti a fustaia 98 ettari di cedui , in massima parte di faggio ,e alla fine del 1892 le conversioni avevano raggiunta un estenzione di 124 ettari.

Con la soppressione dei quattro poderi del Sambuco, Metato, Casetta e Porcherie, avvenuta nel decennio 1871-80 l'amministrazione forestale di Vallombrosa, che aveva sede d'ufficio a Paterno nel palazzo dell'antica fattoria , comincio a ricoprire tutti quei terreni nudi e pascolivi, previo allestimento di numerosi vivai volanti, che fornivano una produzione media annua di oltre 800000 piantine tra latifoglie e resinose, distribuite in buona parte ai privati che ne facevano richiesta . Le località prescelte per ivivai furono il Lago, il Sambuco ,la casetta di sopra e disotto , la Fonte dei Sette Frati, laMandria ,il Metato, laMandria della Casetta, l'Abetone, il Puntone di Stafanieri e sopra ,il Paradisino.

Alla fine del 1892 erano già stati rimboschiti già 330 ettari e l'abetina del Lago si era ricongiunta con il nucleo centrale di Vallombrosa. Le specie impiegate prevalentemente furono l'abete bianco , il pino laricio, silvestre e nero, il faggio e il frassino; furono effettuate anche semine per oltre 17 quintali di seme di abete bianco e castagno .

Nel periodo 1871-1880 venne costruita la strada "carrozzabile" da Paterno a Vallombrosa, mentre nel periodo successivo periodo 1880-1885 veniva aperta la strada fra Vallomrosa e Seltino. Nel cinquegno successivo fu portata a termine la ricosruzione , pressocche di sana pianta , della strada da Vallombrosa e al Lago, mentre nel 1902 veniva costruita a spese dell' amminisrszione forestale, la srada dal Lago ala Consuma.

Allora fu costituita la cosiddeta "sezione estetica" dell'abetina di Vallombrosa. Verso il 1907 si cominciò a sostituire alle pinete le abetine ; il taglio dei primi avveniva quando le piantine non avevano più bisogno della protezione dei pini adulti. Tra 1900-1907 fu completta la conversione in fustaia dei cedui di cerro , di faggio di castagno per ricavare legname di grosse dimensione.

Nel 1900 fu completato l'edificio sede dell'amministrazione forestale che si trovava difronte a quello attuale , e qui fu trasferito l'ufficio del distretto forestale di Paterno;fu anche ampliato il palazzo del Lago (adibito ad albergo).

Nel 1914 Ariberto Merendi, allora amministratore della foresta, coadiuvato dal giovane Aldo Pavari, ampliò primi arboreti aggiungendovi una superficie di circa un ettaro. Risalgono allo stesso periodo i primi impianti della douglassia che oggi si ammira in maestosi esemplari. Verso il 1920 si ebbe, a cura del Pavari, succeduto a Merendi come amministratore della foresta, un ulteriore ampliamento verso il Saltino di circa due ettari in un tratto di abetina che aveva subit un forte attacco di "Armillaria" con elevatissima moria di piante che furono sostituite .

Da uell'epoca ebbe inizio la trasformazione delle fustaie di faggio in boschi misti di abete e faggio con maggioranza del primo, poichè era meggiore la richiesta di assortimenti legnosi.

Dal 1923-1924 i castagni da frutto, il cui prodotto non serviva più per i bisogni locali, ma solo per esportazione, peraltro limitata, venivano gradatamente convertiti in cedui. Il bosco misto di latifoglie ,già portato ad altifusto in precedenza,veniva nuovamente convertito in ceduo,dati gli scarsi risultati ottenuti dalla fustaia.

Il pino lariccio fu impiantato su terreni già coltivati a castagno;in altri casi la sostituzione avvenne con l'abete bianco,che spontaneamente,aveva colonizzato il Quercus Pedunculatacastagneto. In ambedue i casi, nonostante che sia trascorso ormai un secolo,sono ancora visibili grosse ceppaia di castagno,talvolta con qualche ricaccio,a dimostrazione della prodigiosa vitalità di questa specie e della notevole durabilità del suo legno.L'opera di rimboschimento interessò anche alcune superfici a pascolo,ubicate nella parte alta della foresta dove fu impiantato il faggio. Nel 1926-27 viene costruita la strada forestale Paradisino-Crocevecchia,lunga circa 4km. Durante la prima guerra mondiale molte abetine delle foreste demaniali,tra le quali anche quella di Vallombrosa,vennero interessate da intensi tagli straordinarti. Anche il secondo conflitto mondiale arrecò gravi danni,sia al patrimonio forestale che agli edifici,dovuti prima agli scontri tra l'esercito tedesco e i partigiani poi alle truppe di occupazione. Ampie superfici boscate furono distrutte dalle mine e molte piante caddero al taglio per esigenze belliche.

Nel 1950,in seguito ad un precedente lungo periodo di siccità,numerose piante vennero danneggiate da Armilaria Mallea nella zona del Metato e del Soglio. Data la modesta estensione della foresta , bisognava trattarla come un giardino.

Nel recente piano di assestamento dell 1969 è stato dedicato un grosso spazio alla funzione ricreativa : per frenare il congestionamento di auto all' abazia vennero costruite aree attrezzate per i turisti .

 

Note sull'evoluzione del paesaggio di Vallombrosa

Il volume di Gabrielli e Settesoldi "Vallombrosa e le sue selve , nove secoli di storia", ci consente una sommaria interpretazione storica del paesaggio e dell'uso del suolo relativo al territorio di Vallombrosa e del suo circondario.

I possedimenti dell'antico cenobio di S.Maria a Vallombrosa erano costituiti fino al 1200 da "...grandi estenzioni agricole , di boschi e di pascoli".

I coltivi un tempo si spingevano molto più di ora sulla montagna ,infatti anche le abitazioni si etendevano molto più là sul crinale .

 

L'istituto forestale

Dopo la proclamazione di uno stato unitarioporta soltanto vantaggi alla foresta ,infatti questa venne valorizzata turisticamente dalla costruzione di strade e della ferrovia di Vallombrosa , ma dato il grosso sviluppo economico dovuto alla crescita delle industrie ,a foresta ricavò grandi somme di denaro nella vendita di legna in quanto questa veniva usata al posto del carbone che doveva esser esportato.

Ma "limortazione miglore del regnab fu la instaurazione del'istituto frestale il quale aveva il compito insegnare le varie discipline forestali sia teoricamente che praticamente;questo fu situato a Vallombrosa e dopo alcune problematiche iniziali questo riuscì ad avere un grande sviluppo.

 

Gli Arboreti di Vallombrosa

Gli arboreti rappresentano una colllezione di piante in grado di conservare dei patrimoni genetici , didattici ,ornamentale e paesaggistica .Arboreti

La costruzione del primo nucleo si deve aldirettore dell'istituto forestale di Berengher ed il suo assistenteVittorio Perona.

Ripreso poi dal Pavari che aggiunse alla funzione didattica, la funzione sperimentali.

Infine grazie ad il contributo della "cassa di risparmio di Firenze", nel 1934 fu allestito un museo dendrologico, con lo scopo di valorizzare gli stessi arboreti e per mettere a disposizione degli studiosi materiale per le loro ricarche .

 

 

 

La foresta di Sant'Antonio

 

La foresta Sant'Antonio nel comune di Reggello è situata nel versante occidentale della catena del Pratomagno, a sud della foresta di Vallombrosa. Oggi fa parte del patrimonio agricolo forestale della regione Toscana, ma la sua storia è legata a quella di Vallombrosa e all'attività dei monaci benedettini. Dal 1976 è gestita dalla Comunità Montana Pratomagno a seguito della delega, fatta dalle regiona, per l'amministrazione del demanio forestale. Con la legge regionale numero 92 dell' 11.12.96 il comune di Reggello è entrato a far parte della comunità montana Mugello, Alto Mugello, Val di Sieve, che diverrà il nuovo ente per continuare la gestione del territorio montano.

Come tutte le foreste, anche la foresta di Sant'Antonio svolge un ruolo importante nella conservazione e nel mantenimento di un equilibrio ambientale, dove la corretta utilizzazione delle risorse rappresenta la sfida del nostro prossimo futuro. Lo sviluppo e la affermazione di un nuovo modo di agire, in grado di valutare tutti i problemi dell'ecosistema bosco, può garantire una sintesi ottimale fra fruizione e salvaguardia, tra una selvicoltura naturalistica e il rispetto della piena funzionalità ecologica.

La foresta ha mantenuto nel tempo un buon grado di naturalità, a differenza di quella di Vallombrosa, privilegiando una rinnovazione naturale, con interventi selvicolturali selettivi e prelievi commisurati all'incremento. Il riferimento a questi principi consente di poter procedere ad una piena valorizzazione delle sue funzioni che sono protettive, per assicurare una valida difesa del territorio dal ripetersi di fenomeni franosi e di alluvioni; produttive, per l'utilizzo della produzione legnosa e ricreative, per costituire un polmone verde indispensabile alla vita dei cittadini. Quindi ecologia, selvicoltura ed economia, quale sintesi per intraprendere una progettualità rispettosa della stabilità dell'ecosistema foresta e della sua capacità di autoregolazione. Della foresta di Sant'Antonio vengono in questi studi delineati aspetti storici, climatici e vegetazionali, sia naturali che artificiali.

 

L'ambiente

La foresta di Sant'Antonio è compresa nella catena del Pratomagno, dorsale preappeninica che si allunga per circa 40 chilometri, dal Passo della Consuma, fino a sud di Talla e che limita a nord est il bacino della Valdarno superiore ed a sud ovest quello del Casentino, allungati parallelamente alla catena. Forma un semicerchio snodandosi lungo il bordo più alto del bacino del torrente Resco, nel comune di Reggello. È delimitata a nord dal crinale di Poggio Massa Nera (metri 1075 s

.l.m.) che, con direzione nord est, si ricongiunge al crinale del Pratomagno. La foresta segue, nel suo limite latitudinale, il crinale principale interessando il Poggio della Risala (m 1485 s.l.m.), la Croce del Cardeto (m 1356 s.l.m.), Il Poggio alla Cesta (m 1446 s.l.m.), il Varco di Reggello (m 1354 s.l.m.) poi, più a sud, se ne scosta e segue il crinale secondario di Poggio Castelluccio, a confine con il comune di Castelfranco di Sopra. Il suo limite inferiore presenta un andamento frastagliato, seguendo fossi e crinali, segnato da Pian della Farnia e Case Levane.

Fasce della vegetazioneLa morfologia è accidentata con ripide pendici, crinali marcati, balzi rocciosi e fossi profondi che confluiscono verso il torrente Resco, con i borri di Sant'Antonio, della Rota e della Stufa. L'altimetria media è compresa fra 950-1000 m s.l.m., con minimi intorno ai 600 m e massimi di 1490 m lungo il crinale principale.

Il substrato geologico della foresta è formato da arenarie oligi-miceniche, facenti parte dell'Unità Cervarola Falterona (meglio conosciuta come Macigno) che affiora nell'area del Pratomagno, caratterizzata da un'elevata omogeneità geologica.

Si tratta di due successioni turbiditiche, inferiormente rappresentate dalle arenarie del Falterona, passanti con gradualità alle arenarie della Cervarola. La litologia è definita da un'alternanza di arenarie quarzoso-feldspatiche, gradate di colore grigio-azzurro o scuro, o marne (nel caso di arenarie nel Cervarola), con siltiti e argilliti, di colore marrone chiaro o verdastro. Lo spessore di strati di arenaria è rivelante, raramente inferiore al mezzo metro, mentre quello degli argilliti o siltiti è poco spesso, supera raramente i 15 cm e può ridursi a pochi centimetri. La composizione mineralogica media delle arenarie è così formata: quarzo 40,15%; feldspati 16%; fillosilicati 25,12%; plagioclasi 19,54%; ortoclasi 9,88%; calcite 5,31%.

I frammenti di roccia sono così rappresentati: rocce metamorfiche 50-55%; rocce sedimentarie 20-24%; rocce vulcaniche 10-12%; rocce intrusive 7-9%.

La base geologica è pertanto dominata dalla formazione dell'oligocene, con notevoli banchi di arenaria compatta, intercalati da pochi e sottili strati scistosi. Nella parte meridionale della foresta emergono le testate dei banchi di arenaria, formanti frequenti balzi di roccia. Ciò determina una morfologia accidentata e suoli più magri, derivanti in parte da detriti di falda. Nel versante settentrionale la pendenza è minore, la morfologia più dolce e l'ambiente più favorevole al bosco. Da queste arenarie, si possono originare suoli bruni, permeabili e di ottima fertilità, ma in questa foresta, le pedogenesi è lenta e l'erosione ha causato gravi danni difficilmente riparabili. Il pascolo, le ripetute ceduazioni, il fuoco hanno lasciato ampie superfici scoperte con suoli magri, poco profondi e sassosi, che la vegetazione residua e le piante pioniere (carpino) tentano di ricoprire. I suoli evoluti si trovano solo negli avvallamenti o nei tratti ancora densamente coperti dal bosco.

 

 

Il clima

I dati climatici fanno riferimento ai dati termopluviometrici degli annali idrologici del Servizio Idrografico del ministero dei lavori pubblici, dal 1957 al 1986, delle seguenti stazioni di rilevamento:

Il Palagio, situata alla quota di m 322, dotata di un solo pluviometro;

Vallombrosa, alla quota di m 955, dotata di termopluviografo.

Queste due stazioni sono rappresentative, rispettivamente, del clima medio delle zone di fondo valle (circa metri 300-500) e di quelle in prossimità del crinale (circa metri 1200-1500). La media mensile e annua delleGrafico termopluviometrico precipitazioni e il numero dei giorni piovosi, calcolati nei 30 anni, nonché la successiva media per l'intera zona, sono riportati nella tabella. Da questa si vede che abbiamo medie annue di 921 millimetri e 95 giorni piovosi per il fondo valle e 1305 millimetri e 117 giorni piovosi per il crinale. La quantità di precipitazione media annua, per l'intera zona, è di 1113 millimetri e 106 giorni di pioggia, con due massimi, in autunno, nel mese di novembre con 135 millimetri, e in primavera, nella mese di marzo con 104 millimetri; con due minimi in estate, luglio con 42 millimetri ed in inverno, di gennaio e febbraio, con 95 e 93 millimetri.

Per quanto riguarda la temperatura, mancando i dati termici per la stazione di Palagio e per le zone più alte, questi sono stati ricavati con l'ausilio di un gradiente termico medio mensile ottenuto dal confronto fra i valori delle temperature medie mensili di Vallombrosa e quelle della stazione più vicina di fondo valle, Montevarchi m 170 s.l.m.. Con questi elementi si è elaborata la tabella E1, dal cui esame si osserva che le temperature medie annue variano da 12, 9°C nelle aree di fondo valle a 9,1°C in quelle intermedie, fino a 5, 9°C sul crinale. Le medie nel mese più caldo, luglio, sono di 22,2°C (Palagio), 17,8°C (Vallombrosa) e 14,1°C (Pratomagno); nel mese più freddo, gennaio, si hanno rispettivamente, valori di 4,2°C, 1,3°C e 1,1°C.

La temperatura è la risultante dell'interazione di numerosi fattori, fra i quali l'altitudine, l'esposizione, la morfologia della terreno e la pendenza. Con l'altitudine la densità dell'aria diminuisce e ciò comporta una più facile dispersione del calore di ritorno dal terreno. Questo è causa di abbassamenti di temperatura di circa 0, 6°C per ogni 100 metri di dislivello. L'altitudine agisce anche sulle variazioni termiche giornaliere per una maggiore trasparenza dell'aria alle quote più elevate e per l'accumulo di aria fredda in quota che scivola lungo i versanti, nelle valli.

 

La vegetazione

Nella foresta di Sant'Antonio si rileva come il bosco di faggio predomini nelle esposizioni più fresche e in quelle più alte, arrivando sulla prateria cacuminale. Tra le diverse forme di governo del bosco di faggio, prevalgono i cedui seguiti da fustaie transitorie.

Alle quote più basse e nelle esposizioni più calde, altre latifoglie sostituiscono il faggio, quali il cerro, il carpino nero, il castagno. Si formano così boschi puri o misti di latifoglie, anche con la presenza di ornielli, aceri opali, carpini bianchi. Nei versanti più aperti e aridi predominano boschi di roverella.

Nelle esposizioni a sud troviamo densi arbusteti e pietraie coperte da eriche e ginestre ovvero balzi di roccia intercalati da praterie e graminacei. Questi terreni sono stati ripetutamente percorsi dagli incendi; i più gravi si sono avuti nel 1943 e poi nel 1946, dove andò distrutto il 78% della superficie demaniale boschiva. Ciò indusse l'amministrazione forestale ad interrompere l'utilizzazione ed operare una intensa ricostituzione boschiva nelle zone di Massa Bernagia, Massa nera e Macinaia: si tratta di impianti artificiali, puri o misti, di douglasia, abete bianco, abete rosso, pino nero e faggio. I tipi di vegetazione presenti nella foresta di Sant'Antonio e le superfici ad essi corrispondenti, sono riportati nella tabella. Per avere un'informazione più omogenea della vegetazione forestale, le superfici forestali sono state raggruppate sulla base della loro composizione tipologica.(tabella)

Come si vede, nell'area in esame, si trova una forte presenza della faggeta che copre il 47,36% della superficie boschiva, seguita dai boschi di latifoglie varie con il 16,9% che comprendono prevalentemente il castagno il carpino nero e bianco, il cerro e l'acero. I castagneti sono il 5,51%; i boschi di conifere il 6%, mentre le cerrete sono presenti con un 3,72%.

La zona è inoltre caratterizzata da superfici estese di arbusteti ed aree cespugliate, con valori pari al 9,73%; ancor più da superfici rocciose con copertura arborea e arbustiva irregolare (rupe boscata),con il 10,14%. I valori per il pascolo cespugliato sono di 1,23%; di 4,7% per il pascolo nudo, che interessa soprattutto le zone cacuminali.

TIPI

ha

Fustaia di faggio

3,27

Fustaia transitoria di faggio

155,6

Ceduo invecchiato di faggio

332,19

Fustaia transitoria di castagno

15,13

Ceduo di castagno

31,34

Ceduo invecchiato di catsagno

10,72

Fustaia di pino nero

11,81

Fustaia di douglasia

18,12

Fustaia di abete bianco

9,89

Fustaia di conifere varie

23,19

Fustaia transitoria di cerro

12,19

Ceduo di cerro

13,76

ceduo di latifoglie varie

8,05

ceduo invecchiato di latifoglie

116,64

Fustaia di conifere e latifoglie

19,28

Ceduo invecchiato di Cerro

12,71

Fustaia transitoria di latifoglie vaire

19,28

Arbusteto

100,96

Pascolo cespugliato

12,77

Rupe boscata

105,17

Pascolo nudo

4,7

 

Valorizzazione della foresta di Sant'Antonio

La foresta di Sant'Antonio, di circa 1000 ha, è topograficamente collocata nel versante occidentale del Pratomagno: la morfologia tormentata crea caratteristici balzi rocciosi e fossi profondi che confluiscono nei torrenti che l'attraversano.

La particolare configurazione, con quote variabili da 1400-1500 metri del crinale, fino a scendere a 700-800 metri, da luogo ad una alterazione di microclimi, che determinano la diversità della vegetazione e della flora, la quale presenta alcune specie di notevole interesse botanico.

L'ambiente vegetazionale è dominato nella parte più alta e nelle zone più fresche, dai boschi di faggio; accompagnano la faggeta piante endemiche o subendemiche di particolare interesse fitogeografico. Alle quote più basse si hanno boschi di latifoglie, dove si alternano castagno, cerro, acero montano, frassino maggiore, carpino nero e bianco. Anche questi boschi presentano specie di notevole interesse fitogeografico, d'interesse estetico o piante protette.

La foresta di Sant'Antonio si presenta come un'area ancora integra e naturale, con una flora rigogliosa, con una fauna numerosa e varia che insieme arricchiscono l'ecosistema. Il suo inserimento nelle "aree di particolare pregio naturalistico" e la sua individuazione quale "sito di interesse comunitario e zone a protezione speciale" sono segnali significativi dell'importanza naturalistica di questa zona.

E' quindi auspicabile riuscire a valorizzare questa foresta in modo che possa assumere un ruolo attivo nel turismo naturalistico, soprattutto nel versante didattico, nella promozione dell'ambiente, nel rispetto delle sue potenzialità naturalistiche. In questo contesto occorre dare una potenzialità a questa zona, che non sia solo virtuale, ma legata a peculiaretà e caratteristiche che da tempo individuano in questa forsta e più in generale in tutta la catena del Pratomagno un patrimonio di indiscusso valore.

La bellezza di questi luoghi è lì intorno a noi, la possiamo sentire prima di vederla, se riusciamo ad avvicinarci rispettando l'ambiente e le sue regole; non serve "consumarlo" come frettolosi turisti, ma intuirne il messaggio di armonia, di equilibrio, in un rapporto che da sempre lega l'uomo alla natura, spesso dimenticato nel nostro tempo. L'impegno per una valorizzazione naturalistica della foresta è stato sollecitato oltreché dai valori naturalistici e ambientali riscontrati, anche dall'interesse degli enti pubblici, associazioni naturalistiche e venatorie, che in vari momenti hanno dimostrato attenzione ed interesse per promuovere iniziative concrete. Gli strumenti urbanistici individuano queste zone (le foreste di Vallombrosa Sant'Antonio e più in generale la catena del Pratomagno) come aree di pregio e ne prevedono una riserva naturale di interesse nazionale.

 

 

 

Le informazioni su Vallombrosa sono tratte da: Vallombrosa: natura, storia, cultura; dello Studio di Enrico Rainero Editore; Firenze, 1992

 Le informazioni sulla foresta di Sant'Antonio sono tratte da: La foresta di San Antonio di Sonia Elisi; Lalli Editore; Comune di Reggello_Firenze

 Il lavoro e stato svolto da: Salvatore Badalamenti, Emiliano Bini, Jamil Cappelli, Stefano Pucci.