Gesto, architettura, emozione
il Woyzeck di Buchner / Wilson / Waits

di Francesco Franci
Romaeuropa Festival - ottobre 2002  


Si entra, ci si aspetta qualcosa da Wilson, si riceve qualcos'altro, si rimane un po' sconcertati, anche se affascinati dal rigore luminoso degli spazi, delle musiche e dei movimenti, dal cantare, poi pian piano, come succede nei "grandi sogni", come li chiama Jung, entriamo nell'emozione del gioco, nella perfidia delle sue componenti. Ritroviamo il Woyzeck e il suo mondo, le "personae" le maschere mitiche, e allora ci emozioniamo veramente. Il colore rosso, la morte iconica, l'omicidio rituale-demenziale, il bambino nelle "ombre", tutto questo ci travolge, ed è la fine.
Tutte le immagini, le sapientemente eterogenee canzoni di Waits, le facce colorate dei personaggi, i colori sempre mutevoli come gli spazi, la composizione dei gesti e dei movimenti, si ricompongono in un'Opera, vera.
Ci viene in mente l'utopia-sogno dell'opera "globale" di Wagner. Ma i richiami che ci saltano addosso, vedremo poi, non sono solo questi.
Già prima di entrare in teatro si sa come va a finire, la storia è palese, il finale "scontato", ma il dramma è rivissuto, emozionalmnete ogni volta, dall'anima, come in un rito archetipale.
Già sappiamo quale sarà l'ultima scena, ma quando la vediamo è come se la vedessimo per la prima volta, perché la vediamo anche col cuore la cui "memoria" ha regole diverse. Attiene al mondo dell'anima e delle sue "ombre", il cui ricordo (cordis) è pura emozione, gioia e pianto.

La nostra anteprima
Woyzeck
di Georg Büchner

regia di Bob Wilson
musiche e liriche di Tom Waits e Kathleen Brennan

L'impianto drammaturgico delle opere di Bob Wilson è sempre una operazione d'architettura.
Ma come? attraverso quali canali? quali immersioni teatrali?
Attraverso il dominio del gesto, del movimento come freddo, composto, geometrico veicolo dell'emozione.
Ce l'aveva già detto Ludwig Wittgestein, tra le righe dei suoi illuminanti scritti, obbligandoci a sognare freddamente a modo suo (1).

"Il mio ideale è una certa freddezza.
Un tempio che faccia da sfondo alle passioni senza interloquire.

Ricordati dell'impressione che suscita la buona architettura, che è quella di esprimere un pensiero.
Si vorrebbe accompagnarla con un gesto.

L'architettura è un gesto.
Non tutti i movimenti funzionali del corpo sono gesto.

Tanto poco quanto ogni edificio funzionale è architettura."

Ludwig Wittgenstein

Queste parole basterebbero da sole a descrivere la genialità del tessuto spazio-gesto che sono l’arma vincente delle “costruzioni” di Wilson.
Sette righe, sette frasi di filosofia minimale descrivono il fiume nel quale scorrono le immagini, le architetture, le fredde e sempre mutevoli luci, i suoni, i movimenti geometrici.
Un fiume eracliteo nel quale “non ci si puo’ bagnare due volte”, in cui tutto scorre, assieme ai sentimenti ed alle emozioni. Allora si comprende il significato nascosto del “minimale”, della “ripetizione”, del gesto come segno, e dell’insieme dei gesti come scrittura, architettura freddamente struggente.

foto di scena
 

L’opera musicale inventata sul testo di Buchner da Tom Waits e Cathleen Brennan cambia le carte in tavola.
Si insinuano le “canzoni”, le liriche, nell’impianto teatrale di Buchne,r come se fossero i suoi pensieri non espressi, per pudore, la sua voglia inconscia di far cantare le anime e le ombre dei suoi personaggi. Con più generi musicali, apparentemente eterogenei, che sono altrettanti richiami (sempre per la memoria del cuore).
Una diabolica intesa tra Wison e Waits fa esplodere uno stupefacente richiamo all’espressionismo tedesco. Vengono in mente le atmosfere cupamente lucide di Fritz Lang o de "Das cabinet des Dr. Caligari” di Robert Wiene del 1919. Uno espressionismo che qui si fa però struggente, poetico. Il bianco e nero si fa colore quasi digitale. I volti bianchi, le scene inclinate, come i pensieri.
E ancora ritmi e suggestioni musicali alla Beggar's Opera di Brecht, dove pero’ la tracotanza di Mackie Messer, o il disincanto di Svejk, si perdono nel buio della vana ricerca esistenziale del “soldato” Woyzeck. Dove cattivi, buoni, saggi e folli danzano in una spirale tragica attorno all’amore o alla morte, che li invischia tutti e li confonde, li perde, li riscatta… E le liriche-musiche sono il filo conduttore di tutto questo.

video e musiche
 

Nel '74 al Festival di Spoleto fummo fulminati da "A letter for Queen Victoria", e invischiati sottilmente dall'intervista che strappammo a Wilson dopo lo spettacolo (2).
E il "gesto" fu (ed è) al centro del discorso.

"IL DRAMMA: Perché il gesto?
"WILSON: …. Nella strutura coreutica sono sullo stesso piano con la medesima funzione espressiva, parole, musica, pause, come figli naturali di un semplice movimento della mano. Le parole vengono gettate come palle nelle loro sfumature di suono…
" IL DRAMMA: Il gesto come rito.
" WILSON: … L'uomo si muove con dei ritmi che contengono sciolto il suono. Questo grido diventa suono quando si avviluppa al movimento articolato. La danza crea la musica., La parola si algebrizza paralizzandoci."

Questi brani dell'intervista del '74 potrebbero benissimo essere sufficenti per descrivere l'anima di questo Woyzeck-in-scena di Wilson-Waits. Cio significa che Wilson da 38 anni fa sempre le stesse cose? Che basta rispolverare un vecchio articolo? Assolutamente no.
Significa che Wilson lavora da sempre su archetipi e sulla loro "diabolica" manipolazione, in un nuovo minimalismo esplosivo. Significa che ci emoziona sempre come se lo vedessimo per la prima volta. Sempre "giovani" spettatori alla ricerca inconscia di stupore, di teatro come spazio magico di alterazione della realtà, per sprofondarci dentro, fino al suo buio risplendente.

 
 

Note:
1) "Il giorno e la notte di Ludwig W." - Vrtti Opera - Roma 1980
"Lucus" - Vrtti Opera - Roma 1983

(2) Francesco Franci e Claudio Scorretti - "Snobbati dallo snob" - Il Dramma - Luglio 1974

 

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